2 – Al buio…
di Laura Cegalin
Il 25 giugno alcuni docenti e simpatizzanti di Porte Aperte sul Web si sono recati alla Cena al buio organizzata dall’Istituto dei Ciechi di Milano. È stato un momento importante per sperimentare nuove modalità comunicative ed espressive.
Molto di quella serata è rimasto in noi, così come ci racconta Laura rovistando con leggerezza ed intensità tra le sue e nostre sensazioni di quel giorno.
Mi chiamo Laura, sono un’educatrice professionale, ed ho avuto il privilegio di conoscere Alice, una preadolescente non vedente, che da quattro anni mi insegna a guardare oltre.
Io, che sono stata la sua insegnante di sostegno, e che ora mi cimento con lei nell’apprendere un buon metodo per comprendere e usare Lambda, o per sostenere tre ore di algebra, mi trovo spesso ad osservarla, quando fa le sue facce buffe, commenta il mio nuovo profumo, o scandaglia il mio astuccio o la mia borsa con le sue mani curiose.
È grazie a lei, che, tra gli altri tesori che la mia professione mi ha regalato, sono entrata in contatto con L’Istituto dei Ciechi di Milano. Un contatto fugace, per un corso di informatica, che mi ha però instillato la curiosità per il misterioso Dialogo nel Buio.
Anche alcuni miei alunni di una scuola superiore avevano già fatto questa esperienza, e il desiderio di portare qualche compagno di classe di Alice, nel buio, a sperimentare quanto sia poco scontato avere il dono della vista, magari per apprezzare e riconoscere gli sforzi quotidiani della loro vicina di banco, mi tentava.
Poi, per questioni logistiche, il tutto è caduto, tranne il desiderio di sperimentarmi, in prima persona.
Accompagno Alice nei corridoi, in giro per Milano, abbiamo perfino partecipato a diverse gare di corsa campestre, fatto spinning, orientiering, salto in alto, in lungo… ma non avevo mai potuto provare che il mio modo di accompagnarla non fosse un trascinamento, un portarla…
Fino a lunedì.
Entrando nel suo mondo mi è venuto naturale accettare l’invito a partecipare alla cena nel buio del 25 giugno, comprensiva di un assaggio del percorso di “Dialogo”. Ora che mi trovo a dover scrivere di questa esperienza, del tutto inedita, e meravigliosa, non so neppure da dove iniziare, ho paura che qualsiasi cosa scriva finisca per essere banale e retorico.
Ma è ben poco banale quello che ho provato, nell’entrare in una dimensione che da piccola temevo terribilmente, e che invece ci accompagna, per tutta la vita, ricordandoci che ogni cosa, come la luce, ha il suo rovescio, il buio.
Affascinata. Mi sento così.
Muoversi nel buio più totale, passare dall’essere l’esperta, la guida, alla completa incompetenza, al sentirmi buffa, impotente; sperimentare l’evidente fatica, la paura, la frustrazione di fronte al non riuscire; condividere con un gruppo di avventurosi l’inesperienza, la novità, la frustrazione nel non riuscire ad esplorare se non una frazione dell’ambiente; e insieme, nel momento in cui tutto sembra perso, e le emozioni ti affluiscono alla testa in un vortice, e ti chiedi “perché sono qui?” o minacci Alberto di fargliela pagare, ecco che un braccio esperto ti raggiunge, ti sorregge, ti ha individuato, chissà come, ha sentito la tua difficoltà, il tuo disagio. È Paolo, la mia guida.
Lui sa dove sei. Ti riconosce. E sa perfettamente cosa stai vivendo. Non lo ha studiato sui libri, lui, no. Lo vive sulla sua pelle, tutti i giorni. E in maniera sorprendente mi accompagna, lui, un non vedente, in questo labirinto, attraverso situazioni di possibili quotidianità.
Mi fido, la sua voce è calda, rassicurante: è lui l’esperto adesso e io finalmente posso vedere, so dove devo andare, e non sono sola.
Lo stomaco brontola, non solo il mio, nel buio i suoni sembrano più confusi, e io mi sento imbranata, non capisco da dove vengono. Ogni cosa sembra più difficile, ma ho la guida ideale: lui c’è, e interviene solo se davvero ne hai bisogno, senza che tu lo chieda, ma senza sostituirsi.
Arriviamo finalmente nella sala ristorante: Paolo ci fa accomodare, siamo smarriti, ma sollevati. Siamo tutti insieme, e la condivisione, in questi casi non è una cosa da poco.
Con imbarazzo, ma forse complici del buio, cerchiamo di comunicare tra noi. Come? Io non mi ricordo neanche il viso dei miei commensali, siamo tutti uguali, il non verbale è più sottile, ci vuole tanta concentrazione.
Eppure pochi minuti, e la conversazione si avvia, in modo spontaneo. Tra una presentazione e l’altra tastiamo il tavolo, e gli oggetti davanti a noi. Inizio a pensare che la scelta dei pantaloni bianchi non sia stata in effetti molto azzeccata.
Paolo e i suoi colleghi si muovono con esperienza, mi domando come facciano a comunicare tra loro, a non scontrarsi, a ritrovarsi.
Abitudini, ordine condiviso, ci risponde la nostra guida: io però penso che sia necessario essere speciali.
Mi sento meglio, nel locale c’è un piano bar. Fantastico! E che estro…
Le note addolciscono i miei pensieri, ascolto le voci, guardo nel piatto (con le mani…) cosa mi aspetta. Mi gusto la cena, come non mi era mai capitato di fare.
È difficile, ma non impossibile, mi ripeto, e Alice affronta tutto questo tutti i giorni. Mi commuove l’idea della mia befanella che mi parla dei suoi miti musicali, e di questo o di quel compagno, senza averli mai visti.
Eppure sento che lei sì che li vede, e li conosce: non è retorica, lei può apprezzare nel profondo una persona, e non lasciarsi incantare dall’aspetto.
Sento di stimarla ancora di più, lei e tutti coloro che nelle sue condizioni, a vario titolo camminano per le strade caotiche di questo mondo di immagini e velocità.
Il mio respiro si sintonizza sulla musica, sono serena. Il vedere, per il momento, non mi manca: io so che questa condizione finirà. E per ora non mi serve: sto parlando con calma, e mi sto diver-tendo con persone che non conosco, che non vedo, e che probabilmente non vedrò mai più, ma che hanno condiviso con me un momento, un assaggio di vita inedito, che resterà chiuso nella parola esperienza, o volerà attraverso i nostri racconti.
La cena finisce, ci riaccompagnano verso l’esterno; ho l’occasione per esplorare le mani di Paolo, lui complice mi lascia fare. È una mano che non scorderò.
All’uscita la luce mi investe, tutto riprende forma troppo velocemente, gli occhi mi fanno male. Guardo le persone intorno a me e mi chiedo chi siano, le riconosco dalla voce, una voce che mi racconta di questa esperienza, del percorso dall’angoscia allo stupore, di persone che sfidano la vita ogni giorno, e ogni giorno ci ricordano che non è indispensabile la vista per guardare oltre.